Frontiere e lavoro – Gli schiavi della filiera agroalimentare
Il sistema della detenzione amministrativa e i tanti dispositivi della cosiddetta “accoglienza secondaria” sono certo funzionali al controllo e alla segregazione degli immigrati che giungono nella fortezza Europa ma, con uno sguardo più complessivo, funzionano anche da grandi bacini di erogazione controllata di forza lavoro sottopagata e iper sfruttata a tutto vantaggio dei grandi produttori.
Infatti, la legislazione sull’immigrazione in Italia, subordinando la possibilità di permanenza sul territorio nazionale al possesso di un contratto di lavoro, offre ai padroni un’enorme disponibilità di manodopera servile come diretta conseguenza della condizione di clandestinità.
Un detenuto in un CIE, un richiedente asilo semi detenuto in un CARA, un minore “affidato” alle strutture del sistema SPRAR, sono accomunati da un’esistenza precaria determinata dal possesso o meno di un foglio di carta.
Su questa precarietà si fonda il ricatto del lavoro sottopagato che può raggiungere condizioni di vera e propria schiavitù.
Più macroscopica e visibile è la situazione che si crea attorno ai CARA, dove gli immigrati stazionano per lunghi periodi in attesa di ottenere risposta alle richieste di asilo o protezione, vivendo spesso senza un soldo in tasca e con prospettive molto incerte quanto al loro status giuridico. Ciò li costringe a trovare lavoro nell’economia locale o a spostarsi altrove, sempre in Italia, con occupazioni stagionali. Così si crea un’intensa osmosi fra questi centri semi detentivi e i luoghi del cosiddetto “lavoro nero” dove si sgobba a raccogliere angurie piuttosto che arance o pomodori, per ottenere una paga da fame e, non di rado, abusi e violenze.