Alle 13.25 del 31 agosto 1943 stormi di ombre invadono il perimetro della città assolata: mandrie di goffi uccelli quadrimotori iniziano il loro rito della morte. Tre ondate di B-24 “Liberator” del 98° e del 376° Bomber Group della IX zona aerea degli USA, partite da Bengasi, scrostano il sole dalla pelle dei bagnanti. Nel corso del primo bombardamento di Pescara vengono sganciate circa 500 bombe, dal peso complessivo di oltre 850 quintali; la città, colpita principalmente nella zona a nord del fiume, arrivò a contare poco meno di 3000 morti. Al termine della serie di bombardamenti (furono sganciate altre bombe, nella città oramai quasi deserta, tra il 14 e il 20 settembre, il 17 ottobre, l’8 e l’11 dicembre) circa 1265 edifici risultarono completamente distrutti, 1335 gravemente danneggiati e 2150 in maniera più lieve: il 78% della città era oramai nulla più che un cumulo di macerie e cadaveri.
Seppure non sarebbe del tutto corretto presentare questo evento come una sorta di “anno 0” all’interno della storia millenaria della città, senza dubbio abituata a devastazioni, ricostruzioni e oblio, esso non può che apparire, all’interno della storia più recente del territorio, come un evento cardine, che ha in tutti i modi immaginabili influenzato lo sviluppo materiale e culturale della sua comunità. L’intera storia recente di Pescara è, infatti, segnata dallo squallido miraggio della città “fluida”, sempre in movimento, quanto dall’infima mitologia della “città all’americana”, dei palazzoni e delle costruzioni superflue: la città del riscatto dell’abruzzese poveraccio, il trampolino verso un’esistenza più civile, più moderna, decisamente più anglofona. Il ruolo cruciale del bombardamento in tutto questo processo è chiaro: sul foglio bianco di una terra ridotta a macerie risultò molto più facile plasmare nuove forme di vita, a propria immagine e somiglianza; nella desolazione della guerra del capitalismo è potuta così sorgere imponente la città dello scintillante mondo nuovo.
È nel macabro scenario di quella guerra che i più si impantanano, abbandonandosi in discorsi parziali su mali minori e perdite necessarie. C’è chi ridicolmente si affanna a lucidare l’eredità di un mondo farcito di pace e buoni propositi su libertà e progresso, e c’è chi, in maniera alquanto squallida, vomita idiozie sui primi e su tutti gli altri, rivendicando un passato di “italianità” ed interessi nazionali. Anche su di uno sfondo intriso di morte e miseria c’è chi intavola discussioni marce rette dalle fondamenta dell’illusione: l’illusione di chi convintamente distingue tra democrazia e fascismo, di chi crede di poter riflettere sul massacro gioendo per la pace che ne è conseguita o rimpiangendo l’ordine da esso fatto, a suo dire, implodere.
Magari non è questa la sede per una discussione sui meriti e le responsabilità delle parti in guerra. Ad unx pescarese resta però da porsi una domanda fondamentale, il principio di ogni indagine sui dubbi rimasti irrisolti a 75 anni dallo scoppio di quelle bombe, sui dubbi che permettono ogni anno a politicanti e marciume simile di parlare e sparlare sui corpi dei figli e delle figlie di questa terra caduti nelle proprie case: “chi ha distrutto la mia città? Sono stati i bombardieri americani che l’hanno rasa al suolo o il governo fascista che ha condotto la mia terra, i miei fratelli e le mie sorelle al macello?”
Questo è lo stallo che con la sua irriducibile immobilità regge tutto l’immenso groviglio di interpretazioni e polemiche. La nostra specie (e chissà se non sia l’unica) si è forgiata nei concetti di causa e responsabilità, e ciò rende fisiologicamente necessaria una risposta al quesito. Chi ha distrutto la nostra città? La risposta a questa domanda esige il chiarimento di un punto fondamentale: riteniamo fascismo e democrazia sistemi politici rappresentanti interessi differenti o addirittura contrapposti? Uomini e donne senza illusioni risponderebbero di no. La guerra non ha rappresentato una cesura nella storia contemporanea, bensì costituisce un accordo armonicamente integrato nella tragica composizione del capitalismo. Il capitalismo che vive del lavoro degli sfruttati e delle sfruttate e che devasta la terra da cui tutto il mondo animale, esseri umani compresi, dipende; il capitalismo che ha soggiogato per secoli i/le disperatx del mondo intero come della nostra terra di miserabili e poveraccx orgogliosx.
I morti e le morte dei bombardamenti non sono diverse dalle morti delle stragi e delle rappresaglie nazifasciste sulle nostre montagne (e non solo), che a loro volta non sono diverse, ad esempio, dei morti di Celano del 1950; Pescara e l’Abruzzo non devono niente al fascismo come non devono niente alla democrazia pacificata e pacificante della borghesia: nessuno può essere in debito con i propri affamatori.
Non dobbiamo niente a chi vive ed ha vissuto della sofferenza di noi e della nostra terra, terra povera che sulla frugalità e genuinità ha fondato la propria storia ed il proprio onore. Siamo eredi di un passato tragicamente segnato dal sangue e siamo succubi di un presente che ci illude di poterci riscattare da esso, dalle nostre radici di gente di terra e di mare, contadinx e guerrierx.
La nostra storia ci viene prima nascosta e poi ripresentata sotto forma di parodia, di fenomeno da baraccone. Pescara è stata cresciuta illusa di poter essere qualcos’altro da ciò che non può non essere: la città del futuro, la “Miami dell’Adriatico”, il riscatto di una terra spregevole e disprezzata che adesso, a quanto dicono, cerca il riscatto in questo meraviglioso mondo, il migliore tra i possibili. Allo stesso modo, 90 anni fa, Pescara veniva farcita di un’accozzaglia di parole e valori a lei irrimediabilmente estranei, elevata a simbolo di un’italianità che non le apparteneva (e non le apparterrà mai, si spera), fu costretta a vedere fregiarsi del merito della sua “grandezza” uomini che nulla avevano a che fare con la sua storia e con il suo carattere più intimo ed autentico. In un certo senso, la Pescara fascista si presentava come un goffo tentativo di realizzare quella grandezza fittizia ed inautentica, gonfiata all’inverosimile di parole e narrazioni propagandistiche, che qualche anno più tardi inizierà ad essere edificata, con molto più successo, sulle macerie della città rasa al suolo.
Il 31 agosto non può che rappresentare, per i/le pescaresi e per la loro storia, il simbolo della crudeltà di un mondo che non esita ad usare la forza sui suoi sottoposti, il simbolo della necessità di una forza ancora maggiore per potersi difendere e contrattaccare; il simbolo dell’onore inscalfibile di una città, da riscoprire spazzando via ogni illusione di una “grandezza” che non può appartenerle.